De Mundi Magnificentia

agosto 15, 2008

Mia Africa
rilucente d’un sole
che s’espande
su epidermidi vive,
brulicante d’esistenza
e nera
e verde
e gialla
come il mondo sa essere.
Mia Oceania
nuova e senza ricordi,
di oasi fresche
e di mari circondata,
così piena
e così deserta,
così secca
e così umida,
le tue labbra son rugiada
di sabbie d’oro.
Mia Asia
d’antica bellezza
dimenticata nella frenesia
e ritrovata nell’amore,
provata dalle emozioni
come naviglio in tempesta:
tuoi i fuochi d’artificio,
tue le stelle
su steppe solcate
da venti che portan con sé
tutto il tuo aroma
di cristallo e quarzo.
Mia America
dalle sensuali contraddizioni
che non dorme,
che afferra dolcemente
e modella a piacimento;
d’arte e vita
parlan le tue curve,
di sazie muse
cantan i tuoi poeti,
di sesso e zucchero
mi parlano i tuoi occhi
dischiusi su laghi
i cui nomi non importan più.
Mia Europa
conquistata da piedi dolci
e razziata dalla bellezza,
vecchia e maestosa,
quasi eternamente qui,
eppur giovane
come sa esserlo la cascata
e l’acqua che vi si tuffa,
bella, come sa esser bello
l’universo,
con quei seni
che mai immaginai,
quei seni
che attribuivo a Dio,
alla Natura,
alla Vita.

Gli anni Sessanta sono troppo polverosi per animi docili e sensibili.
Lorein camminava tra piastrelle di lucido malto, svolazzante in mezzo a muri che chiudevano entro sé uno spazio definito “casa”. Calcolando con imprecisione i microsecondi per il prossimo respiro, sempre sfuggenti, leggeva a voce silenziosa la lettera di Adam, come una sofferenza sanguinata su carta. Frasi quali “trattenuto da impegni” o “ritorno rimandato” colavano sulle labbra di Lorein come magma incandescente su bambini inermi: dolorosamente.
Adam amava inserire alla fine delle lettere una poesia di un qualche grande genio, dedicata alla sua amata.

Spegniti, volto,
tra scaglie d’orizzonte la mia ombra tornerà;
vivace musica tra non molti istanti,
comprendendo che sempre
si muore d’assenza,
per poi morire di presenza.

Negli anni Sessanta non esiste ripensamento. E’ il decennio del tutto o niente, del voler sempre troppo e non averne mai abbastanza. E’ il decennio in cui si sgretolano gli atolli nel bel mezzo dell’Arizona per un’esplosione atomica, test li chiamano, senza rimorsi, in nome di un positivismo logoro e ormai troppo di moda.
Lorein non è degli anni Sessanta, eppur ci vive.
Ogni trenta giorni suonano quelle sirene, coprifuoco imposto dalle autorità, gocce di sudore che fuggono dentro mura amiche, perché l’esterno fa troppa paura, il boato è troppo fragoroso.
Quando tutto è finito, non è mai finito del tutto. C’è quell’aria, greve e sfiancata, che porta con sé incalcolabili quantità di anime, non umane, certo, perché solo quelle contano. Quell’aria che si porta dietro l’urlo degli atolli polverizzati, con tutto quel cosmo che si lega alla terra morta.

Quanto può convincere un poeta?
Le parole della lettera risuonano ancora nella testa di Lorein, che tutto lasciò a suo tempo per seguire lo spasmo involontario dell’amore sotto le coperte. Non è un animo per gli anni Sessanta. E’ distrutta da mille e mille sensazioni senza nome, da brividi di freddo e caldo al tempo stesso. Troppo tempo passa tra una presenza e un’assenza, e forse tutto ciò diventa insopportabile.
Si muore d’assenza, per poi morire di presenza.
Si trattiene il fiato e si lancia l’ultimo respiro, per poi resuscitare di gioia e morire nuovamente, esplosi nella deflagrazione del ritorno. Forse che in un tempo meno ingrato, in un luogo meno ingrato, Lorein avrebbe trovato la sua attualità, il modo di non soffrire così tanto. Ma si sa, nessuno nasce al momento giusto, ed ognuno di noi è tormentato dalla casualità dell’esistenza, in continuazione.
Un poeta può muovere alla convinzione, un poeta può assassinare e dar la vita.
L’unico rifugio dai dardi del caso e della sofferenza, Lorein lo intravide in quei versi. E ancora nessuno ci crede.
Ancora oggi, la si chiama “pazza”.

Sirena, trentesimo giorno.
Portandosi dietro tutti i dubbi del destino proprio, tutte le domande e il bagaglio d’esperienza pronti a deflagrare, l’ombra nitida e scura si staglia esile all’orizzonte. Gli anni Sessanta sono pronti ad aprire il fuoco, con un suono vibrante e dei cartelli di divieto come alibi. Gli USA già scagionati in partenza.
I pochi istanti verso l’ultimo respiro, dicono si dilatino infinitamente, come per incanto. E che il crepaccio tra l’ultimo istante di vita e il successivo sia un incommensurabile abisso.
Quando il fungo trascina con sé la terra, il mare e il cielo, quell’istante diventa un po’ come il paradiso stesso. L’ombra non scompare, ma vince gli anni Sessanta, e va di passo in passo accanto alle dune dell’Arizona, a braccetto con gli atolli sminuzzati, contro il positivismo, contro il mondo…
Si muore d’assenza per poi chiedersi, si ritornerà alla presenza?
Misurarsi con quella potenza sembra uno scherzo, se comparato al confrontarsi con l’abisso dell’animo umano.

Stomach Poet

agosto 3, 2008

Intonacando pareti
in pomeriggi di grevi gocce,
Eraclito si frammenta
e lascia spazio alle chimere.
Barlumi di facile sofismo
s’affacciano su troppe menti,
e il pennello sbianca folle di pazzi.
Perplesso
lascio cader pensieri sul pube,
risalendo la china
conversando con villi d’intestino crasso;
Parbleu!
quanto nuovo sapere
dalle viscere,
dallo stomaco,
da ciò che voi nascondete,
bastardi.
Vivo di pulsazione
che mi rimanda all’origine:
gas al gas,
merda alla merda.